mercoledì 17 marzo 2010

Torino: carcere Le Vallette... Cronache dalla Repressione!


Ordine pubblico

«Oh, tutto bene?»
«Sì, sì, tutto bene…»
Ogni volta che entro dentro al bagno, e ci entro portandomi un bel libro appresso, non mi riesce di arrivare in capo alla seconda pagina senza che il piantone che mi piantona non dia segni di agitazione. Sento che si alza e che passeggia, che sporge il viso tra le sbarre tentando di indovinare movimenti dietro la fessura della porta della latrina; poi, immancabilmente, mi chiama per assicurarsi che io sia vivo.
E già, perché nonostante me ne stia sempre tranquillo e di buon umore, ridendo addirittura ad alta voce nel leggere le lettere dei miei compagni di fuori; nonostante non abbia pensieri di morte né di giorno né di notte (principale preoccupazione della lugubre psichiatra che si aggira qui in sezione); nonostante mangi con appetito, e che sia pure un po’ ingrassato; nonostante non dia segno di alcuna sofferenza, sono stato sottoposto - io e i miei compagni con me - al regime carcerario che si applica agli aspiranti suicidi e agli autolesionisti incorreggibili. Regime fastidioso per me (niente lenzuola, per esempio, né buio la notte, né vestiti in cella oltre a quelli che indosso) e dispendioso per l’amministazione, che deve dedicare un carceriere intero solo a me, giorno e notte.
«È che ci è stato chiesto,» dice il direttore mirando col dito verso l’alto, «ci è stato chiesto che non si ripetano i fatti di docici anni fa.» E poi comincia un breve discorso sull’importanza della vita umana, «di tutte le vite umane». Peccato che un qualsiasi detenuto che entri qui dentro per truffa, o spaccio, o perché senza documenti, e che dimostri pure una allegria e una noncuranza ben minore delle nostre non “godrebbe” certo di tutte le fastidiose attenzioni delle quali godiamo noi. Già, perché non è vero che le vite qui dentro sono tutte «egualmente importanti», come dice il direttore. Le nostre gli sono più preziose, perché oltre ad essere vite sono una questione di ordine pubblico in città - come dodici anni fa, per l’appunto. Quelle degli altri no.


(Le Vallette, 4 marzo 2019)
macerie @ Marzo 15, 2010


Resistenze


La guardia mi consiglia di lasciar la mia roba nel corridoio: «Qua dentro, sa com’è…». Poi apre il blindato e mi spinge dentro, e io saltello attento a non pestare i corpi distesi. La cella è lunga quattro passi, e larga cinque. Compreso me, dentro siamo in dodici: quattro se ne stanno allungati sul gradino di cemento che rasenta due dei muri, e gli altri per terra. Venti coperte per dodici persone, per cui c’è chi ha il dubbio se utilizzare quella in più come cuscino oppure per coprirsi e chi non ha diritto nemmeno a questo dilemma.
Mi guardo intorno. Uno di noi è qui da ieri mattina, ed ancora aspetta di vedere il giudice ed avere notizie dei suoi. È vestito da stradino ed è in Italia da vent’anni, e mi racconta che è lì per aver difeso con troppa veemenza se stesso, sua moglie e i suoi figli dallo sfratto. Altri due, con i volti scavati di vecchi, sono stati ammanettati a sorpresa nella questura di corso Verona, dove erano entrati a chieder notizie del proprio permesso di soggiorno. A far loro lo scherzo, neanche a dirlo, la solita Rosanna Lavezzaro. Un altro racconta del ristorante dove ogni tanto lavora e per un attimo la conversazione si fa animata: tutti conoscono quell’angolo di Corso Giulio Cesare, giusto dietro corso Novara. È come se l’agente si portasse su e giù dall’ufficio matricola alla cella ogni volta un pezzetto di città, da sbatter per terra e comprimere ed aggrovigliare in coperte puzzolenti. Ciascuno con la sua incertezza per il futuro, e la sua incredulità.
Poi uno da terra si alza, tira fuori di non so dove un piccolo asciugamano, lo mette per terra ritagliandosi uno spazio tra ginocchi e schiene e su quell’asciugamano rosa si mette a pregare. Silenzioso, ma alzandosi ed abbassandosi e mettendo la fronte a terra e facendo tutti i segni che bisogna fare perché sia una preghiera valida e ben fatta. Intanto che lo guardo mi sforzo di formulare dentro di me un discorso sull’oppressione religiosa e sulla condizione delle donne nei paesi più bigotti e su tutte quelle altre cose vere e importanti che bisogna sempre tenere a mente. Ci provo, ma non ci riesco. Perché quegli inchini e quei gesti, fatti in quella maniera e lì dentro, non mi sembrano affatto un atto di sottomissione, bensì di resistenza. Un modo per dire «sono un uomo», quando chi ha tutta la forza dalla sua ti sta dicendo «sei una bestia», e lo fa chiudendoti in una stalla e strattonandoti e buttandoti a terra. In fondo son gli uomini che pregano, e le bestie no.
E noi da uomini resistiamo.

(Le Vallette, 24 febbraio)
macerie @ Marzo 15, 2010

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